Come sto? Come state? A quattrocchi con questo 2020

Come sto? Come state? A quattrocchi con questo 2020

Tempo di lettura 4 minuti

Ciao Quattrocchi,
come stai?

Io in questo ultimo periodo mi sono persa a pensarci spesso a come sto.
Come sto?
Un misto di sensazioni varie mi colpiscono di giorno in giorno, anche se riconosco di provare sempre un fondo di frustrazione.

Questa pandemia non è arrivata come un fulmine a ciel sereno, almeno non per me.
A giugno 2019 ho ricevuto una brutta notizia che riguarda la salute di un mio familiare e in quel momento ho sentito rompersi qualcosa.

Stavo mangiando il primo fico della stagione, il primo fico di quell’anno. Non so quanto sia condivisa come “tradizione”, a me hanno insegnato a esprimere un desiderio mentre si mangia per la prima volta nel corso dell’anno un frutto.
Ero a metà del mio fico, e stavo concentrando i miei desideri su me stessa: riuscire a ottenere un contratto per settembre. Un contratto stabile e non uno stage.
Nel mentre mi è stata data la notizia e ho pensato di avere sprecato un desiderio. Non perché creda davvero che solo esprimendolo si sarebbe avverato, ma perché nel farlo concentro le mie forze e la mia caparbietà su un obiettivo.

In quel momento ho sentito che non sarebbero bastati tutti i desideri del mondo per sistemare le cose, nemmeno le mie intenzioni.
Niente. E il fico non sono riuscita a finirlo.

Quando a settembre è arrivata la proposta di lavoro stabile tramite agenzia interinale, era felice, soddisfatta di me. Eppure sentivo come una sorta di nebbia densa tra il cuore e lo stomaco, una sorta di proiettile che prendeva peso nel tempo, rigirandosi e facendomi male.

Vivevo distante da casa, non stavo seguendo la cosa come avrei voluto e dovuto, e in parte ero riconoscente di questa possibilità.
Avere stabilità economica è sempre stato un mio pallino, un obiettivo da raggiungere a tutti i costi,  per sentirmi serena e al contempo poter garantire una sicurezza anche alla mia famiglia.
Perché non si sa mai, giusto?

Ecco, l’essere lontana mi permetteva di tenere il cervello impegnato sul lavoro e esserci per la famiglia nei fine settimana.
Un equilibrio a volte precario e doloroso, ma che riuscivo a sostenere.

Poi a marzo è arrivato il lockdown e come tutti sono rimasta bloccata in casa, a Milano, e rispetto a tanti con la grande fortuna di essere con il mio compagno, con un lavoro e un gatto a tenermi la mente impegnata, con il quale giocare e distrarmi.

Il primo periodo non è andato nemmeno troppo male, mi sono riempita le giornate. Ho iniziato ad accusare il colpo a maggio, quando ormai c’era nell’aria il sentore di tornare a uscire.
La mia claustrofobia si stava man mano acuendo, ma per fortuna a giugno ho ricominciato ad andare in ufficio e poi ho potuto rivedere la mia famiglia e le amiche.

Di settimana in settimana le cose stavano riprendendo un ritmo più sereno, e anche a livello di salute da casa mi arrivavano messaggi confortanti.
Tutte cose su cui non facevo e continuo a non fare troppo affidamento, ma ne riconoscevo l’importanza per il piccolo sollievo che mi davano.

La cosa che più mi ha stupita è la voglia di estate che avevo.
Ne sentivo quasi il sapore!
Volevo uscire, andare al mare, visitare musei. Avrei voluto avere i mesi di libertà dei tempi universitari, quando mi impegnavo per concludere gli esami a giugno per chiudere i libri fino a settembre.

Ed è stato lì che ho iniziato a sentire una frustrazione crescente.
Perché ci deve essere sempre qualcosa che non va?

Al liceo non andavo bene a scuola, ero sempre nervosa, mi sentivo sempre nel posto sbagliato.
Poi nel 2008 è arrivata la crisi immobiliare che ha colpito i miei genitori mentre io iniziavo l’università a Parma.
Percorso interrotto due anni dopo per ricominciare da capo a Bologna.

Mi sono quindi ritrovata a rimuginare, pensare che per ogni cosa bella che arriva – come il contratto a tempo indeterminato con l’azienda per cui lavoro arrivato due mesi fa – ce n’è una brutta in agguato, e che per una volta, per almeno un giorno vorrei sentirmi serena, leggera. Senza drammi.

Con questo sentimento sono entrata nel nuovo lockdown, che proprio soft non è: ormai tutti sappiamo cosa ci aspetta e forse non abbiamo proprio le forze per sopportarlo. Mi sono resa conto che in realtà oltre alla profonda frustrazione sento nostalgia.
Nostalgia verso i cinque anni bolognesi, che sono stati la mia rivincita. Io che mi stavo convincendo di non essere poi così intelligente e brava viste le esperienze scolastiche passate, finalmente riuscivo bene in quello che facevo. Fare gli esami era stressante e al contempo soddisfacente: ogni volta portavi a casa qualcosa.
Era un percorso a obiettivi che continuavo a raggiungere. Ancora oggi mi capita di pensare che vorrei chiamare i miei per dire loro che ho preso 30. Perché in quei momenti sentivo di avere il controllo, di star percorrendo una strada che mi stavo creando con le mie mani. 
Una strada fatta di possibilità.

Ora sento davvero la nostalgia farsi strada. Penso a quanto sarebbe meno duro fare questo lockdown vicino alle persone che hanno sempre fatto parte della mia vita. Persone che ora vedo solo attraverso un telefono.
E poi c’è la consapevolezza di avere goduto di un grande privilegio: niente lockdown durante la mia adolescenza o il periodo universitario. Ho festeggiato compleanni – e a volte me ne sono pure lamentata –, lauree e Natali senza preoccuparmi di tutto questo.
Sono stata molto fortunata, quindi il mio pensiero principale va a voi: come state?

Qual è il tuo punto di vista?