Chiedere di farmi pagare mi mette ansia

Chiedere di farmi pagare mi mette ansia

Tempo di lettura 5 minuti

Ciao Quattrocchi, se leggendo il titolo hai pensato “ma sei fusa?”, la risposta è sì.
Sono fusa e piena di ansia, perché chiedere di farmi pagare mi mette agitazione.

Meglio però che ti spieghi, se no qui molli baracca e burattini. E visto che a te teniamo molto, faccio un bel respiro e mi butto.

Fare la tutor durante l’Università

Fare la tutor durante l'Università

Durante l’Università sono stata tutor scolastica in una scuola superiore, ho dato ripetizioni pomeridiane e lavorato in un giornale online.

A parte l’ultima esperienza che era uno stage curricolare, quindi senza un rientro economico, negli altri lavori venivo pagata a ore.
Come tutor scolastica mi è andata anche abbastanza bene: le tariffe erano decise dalla scuola e dal comune, le ore settimanali pure e tenere in mano un contratto con tutto ben chiaro mi dava conforto.

Soprattutto a darmi conforto era sapere che quello stipendio orario era valido per tutti, e non c’era la possibilità che il mio lavoro venisse valutato meno rispetto a quello di un altro.

Dare ripetizioni, invece, significa mettersi sul mercato e cercare di accaparrarsi gli studenti.
Tra le regole che mi sono arrivate all’orecchio, c’era quella del proporsi con una cifra bassa. Un trucco per risultare più allettante rispetto a tutti quei professore che chiedevano 30 euro all’ora – e giustamente, data l’esperienza.

Io chiedevo 10, e in effetti non mi sono mai mancati gli studenti.
Oltre a quelli saltuari, ho accompagnato M. per tutta la triennale del liceo e S. per tutta la terza media.

Ehi, mi paghi? Non sono Wikipedia

In questo genere di rapporto, c’ero solo io a poter far valere il mio lavoro. Nessuna regola comunale o altro.
E dal momento che la cifra l’avevo fissata e i genitori l’avevano accettata chiamandomi, restava solo da decidere quando farmi pagare.
A fine mese o ogni settimana?

Non sono mai stata io a introdurre questo argomento, perché andare a chiedere soldi alle persone mi metteva a disagio.
Senza contare che non ne capivo l’esatto bisogno: hai letto il volantino? Hai visto quanto costo? Allora sai che mi devi pagare.

Qualcuno non lo sapeva.
O meglio, a qualcuno pagarmi sembrava qualcosa di fuori dal mondo.
Come se il mio tempo e le mie conoscenze fossero come Wikipedia: consultabili da tutti gratuitamente.

A un certo punto mi sono data l’obbligo di dire che volevo essere pagata di settimana in settimana se il rapporto si dimostrava continuativo. A fine lezione se non mi erano chiare le loro intenzioni.

Una faticaccia.
Mi sentivo addirittura sporca a parlare di soldi, quando risulta abbastanza chiaro che si lavora anche per guadagnare e godersi la vita.

Lavorare dopo la laurea: quanto valgo io?

Lavorare dopo la laurea: quanto valgo io?

Questa ansia di chiedere soldi, di mettere nero su bianco quanto io valga, non mi è passata.

Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione, con il quale sono entrata ufficialmente nel mondo del lavoro.
Un mondo in cui continuano a propormi tirocini e a pagarmi come se fossi sempre alla prima esperienza, anche se dal curriculum si può vedere l’esatto opposto.

In parte ci sono anche aziende che tentano di assumere personale qualificato con uno stipendio tirato all’osso. Un modo per avere sempre qualcuno che faccia il lavoro, ma con una spesa minima e un ricambio costante.

Allo stesso tempo, penso di essermi incastrata da sola in un ruolo che non mi appartiene più, legato ancora a quella regola del “chiedi meno degli altri, così sceglieranno te”.

Il punto, però, non credo sia solo quello di essere scelta.
Perché per quanto questo dia soddisfazione, nel tempo cosa può comportare?
Mi molleranno a casa scaduto il contratto per avere qualcun altro da pagare poco?
Potrò fare uno scatto di carriera anche da un punto di vista di stipendio?
E per le ferie come la mettiamo? No, perché il tirocinante non accumula ferie. E magari va bene per brevi periodi, ma se lavoro con te da più di un anno la faccenda si fa abbastanza buia.

Insomma, tutto mi porta sempre a una sola domanda: quanto valgo io?

Esperienza vs conoscenze: ha senso fare un confronto?

[…] la Sindrome dell’Impostore.
È un fenomeno che colpisce uomini e donne in uguale misura, per cui non è, di per sé, una questione di genere: prima o poi la maggioranza delle persone intelligenti e capaci pensa di non meritare quello che ha ottenuto, e che scoprirà che non è in grado di fare il suo lavoro.
Ne ha sofferto la gente più assurda: Neil Gaiman, Emma Watson, Jodie Foster.
Anzi, sembra proprio che più sei bravo – e magari un po’ ansioso, sensibile, capace di cogliere le sfumature – più aumenta la possibilità di sentirti fuori posto, come se stessi rubando spazio a qualcuno più in gamba.

Giulia Blasi, Manuale per ragazze rivoluzionarie, p. 95

Si parla spesso di esperienza, di quanto gli anni passati a svolgere una certa attività ti rendano capace ed efficiente.
E nel momento in cui c’è da fare un’offerta lavorativa, si crea uno spacco netto nei confronti della conoscenza data dal percorso di studi.

Ma ha senso fare un confronto?
Ha senso che io mi metta così tanto più in basso di una persona con sola esperienza?
Dal momento che lo stipendio da tirocinante o apprendista – laureato – è comunque più basso di quello di un operaio.

La mia ansia mi dice che devo starmene buona e incassare quel che passa il convento. Perché prendere poco – pochissimo – è comunque meglio che non lavorare: quello stage è il mezzo per arrivare al lavoro che desideri. Alla stabilità che cerchi.

Il problema è che ogni volta si rischia di ricominciare da capo: quando un tirocinio finisce essere assunti non è l’unica opzione. Può venire proposto un proseguimento del tirocinio o si può interrompere il rapporto di lavoro.
Un po’ come giocare a Monopoli e ritrovarsi in galera ogni due turni. Che per uscire con la giusta combinazione dei dadi devi pregare i santi in tutte le lingue che conosci. L’alternativa è pagare la galera e giocare da subito, e in ambito lavorativo significa iscriversi a un altro corso formativo per rendere il curriculum ancora più accattivante.

Quindi: come si esce da questo circolo vizioso?
Non lo so, ma posso dire cosa penso serva.

Da una parte chi fa l’offerta deve mettersi il cuore in pace: i laureati vanno pagati più di 450 euro al mese. Anche perché a me viene chiesto l’impegno massimo, perché tu dovresti darmi il minimo?
Mentre io devo smetterla di accontentarmi: non posso valutarmi come tirocinante per tutta la vita. A un certo punto dovrò convincermi che, diamine, quelle cose le so proprio fare. E che avere studiato mi ha dato elasticità nell’apprendere, più di molti altri.

Insomma, ha ragione Giusi Blasi che in Manuale per ragazze rivoluzionare dice “Studiare, abbiamo studiato. Dobbiamo lavorare. E farci pagare”.

 

Scrivere questo articolo mi ha fatta sudare sette camicie.
Mi ha fatta sentire fragile, vulnerabile, perché si tratta di un argomento delicato che inevitabilmente sale in superficie a ogni colloquio.

Mi sembra giusto dire che non tutte le aziende sono conglomerati al servizio del male. Ci sono aziende che vogliono scommettere su di te, che credono nelle tue capacità e vogliono metterle alla prova. In queste aziende fare il tirocinio di formazione è davvero una goduria, perché quello che impari lo userai a pieno nei mesi – o anni! – a venire. Anche se non dovessi lavorare più con loro.
E sono contenta di poter dire che in questo momento mi trovo in una di queste aziende.

Ricordati, però, che dire “non tutte le aziende fanno così” non fa fare passi avanti.
Le ditte che credono nei loro lavoratori vanno percepite come la norma, e in un certo senso non va dato loro un merito perché fanno ciò che andrebbe fatto.
Come se ci venisse dato un premio perché non diamo calci ai cani o non rubiamo: mi sembra abbastanza ovvio che ci stiamo comportando in modo consono, quindi perché chiedere premi?

Comunque ora tocca a te dirmi la tua, e non risparmiati: sfogati e butta fuori tutte le tue preoccupazioni!
Chissà, magari vederle scritte ci aiuta a combattere questa dannata ansia.

2 commenti

  1. Fabio Biagini

    Dopo aver letto l’articolo mi è tornato in mente il mio primo lavoro: pagato poco per essere “sfruttato” molto. Me ne andai sbattendo la porta e da allora ho sempre trovato impieghi e persone “normali”. Non so se è stata l’esperienza a permettermi di capire immediatamente se mi trovavo nel posto giusto al momento giusto, ma tutto quello che ho ricevuto (aumenti, rinnovi, premi ecc.) mi è sempre stato offerto senza che io chiedessi nulla e questa è la mia piú grande gratificazione professionale. Ora non ho timore a chiedere quello che valgo e il fatto che la controparte accetti, conferma la mia intuizione. Io miro alla soddisfazione non alla ricchezza. Non so se può essere un consiglio, ma io la penso così.

    1. Sì, penso anche io che essere soddisfatti valga più della ricchezza. Anzi, credo che la soddisfazione sia la principale fonte di ricchezza.
      Il fatto è che quando si parla di soldi si cammina sempre sul filo del rasoio.
      Non lavoro e non vivo per i soldi, ma non posso negare che mi servano per vivere.
      In più, conoscendo le dinamiche che stanno dietro ai contratti di tirocinio alle volte viene da domandarsi se il rinnovo di contratto venga fatto perché mi vuoi davvero o se lo fai più che altro per risparmiare.
      A volte ciò che manca, almeno a me, sono la fiducia e il rispetto per se stessi. Una mancanza dovuta proprio da come il tuo ruolo e il tuo lavoro vengano definiti, anche da uno stipendio.

Qual è il tuo punto di vista?