Preparate il tè, abbassate le luci e rilassatevi: “Knives out” è un tranquillo viaggio nella pura e semplice indagine.
Questo film è come leggere un romanzo giallo d’epoca, trasportato ai giorni nostri, con le conoscenze contemporanee. Ecco perché l’ho apprezzato particolarmente: non è facile oggi intelaiare una trama basata per lo più sull’intelletto e la deduzione, senza ricorrere a mezzi facili come lo splatter o i jumpscares.
Knives Out e la suspense
L’atmosfera è quella di un’avventura di Miss Marple o di Hercule Poirot. La struttura di base è piuttosto classica: il ricco capostipite di una famiglia dal patrimonio da capogiro sembra essersi suicidato, c’è una frotta di eredi pronti ad azzannare la loro parte come lupi famelici, ma la morte è sospetta e ognuno di loro avrebbe avuto un ottimo motivo per ucciderlo oltre al denaro. Ecco dunque che arriva un investigatore che fa troppe domande, scomodo e anche antipatico, che risolverà l’enigma. Questa la cornice dove si inseriscono elementi di pop culture e tecnologica, come il personaggio di Joni, che è una lifestyle influencer, o quello dell’adolescente Jacob, che passa la maggior parte del tempo sui social come troll di estrema destra.
La fotografia, nei colori e nelle riprese, è funzionale alla creazione dell’atmosfera, con pause su alcuni dettagli della casa particolarmente inquietanti o inquadrature strategiche che ammiccano al pubblico, soprattutto quelle attorno alla scultura di coltelli e armi da taglio che si trova nello studio principale. Quasi eccessiva, oserei dire, ma sicuramente adatta a creare una sorta di mirino attorno al soggetto che vi si posiziona davanti.
Marta e il Detective Blanc
Il personaggio del Detective Blanc è canonico e peculiare allo stesso tempo. Tanto nella scrittura dello sceneggiatore Ryan Johnson quanto nell’interpretazione da parte di Daniel Craig, riconosco l’ispirazione al Tenente Colombo: un modo di fare irritante da finto tonto che, quando meno ce lo si aspetta, riesce a mettere all’angolo chi mente. L’occhio-di-falco da osservatore acuto fuori dal comune invece è quello di Sherlock Holmes, come anche il suo metodo d’indagine:
Io osservo i fatti, stabilisco l’arco che si piega sereno verso l’epilogo e la verità cade ai miei piedi
che altro non è se non un modo diverso di dire:
Una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità.
La citazione da Sherlock Holmes è talmente lampante che ad un certo punto il Detective Blanc chiama “Watson” la sua compagna d’indagine, l’infermiera Marta.
Di tutto l’impianto, il personaggio di Marta è, dal mio punto di vista, geniale. Lei è la vera outsider rispetto all’impianto classico del giallo in stile Christie. Questa giovane infermiera che oltre ad essere un aiuto materiale è anche una compagnia e un’amicizia sincera per il vecchio capostipite, perché si permette di giocare a dama con lui, di discuterci senza leccargli i piedi e di ascoltarlo senza dargli ragione solo per adularlo.
La sua strana caratteristica (forse l’elemento meno verosimile di tutta la storia ma tanto ben integrato che possiamo stare al gioco) è quella di vomitare quando mente, il che la rende la compagna d’indagine perfetta. Eppure per la maggior parte del film siamo portati a pensare che sia colpevole e che cerchi di coprire le proprie tracce, ma è di indole così buona e gentile che non si può pensare che davvero possa aver commesso un crimine…
Eccola, la vera forza di “Knives Out”. La verità doppia e sfuggente. È la ricerca del capo di una matassa che cambia direzione proprio quando eravamo convinti di aver trovato una certezza. E, come nei migliori gialli, niente è come sembra.
Secondo me, Knives Out è uno dei film più belli e ben fatti degli ultimi tempi, lo adoro!